MALATTIA & FELICITA’ – Modulo Accoglienza – settimana 3.

Il grande insegnamento che riceviamo dalla malattia riguarda principalmente due cose: la paura di sopravvivere e la scelta di vivere. Non sono due aspetti che derivano dalla malattia: sono aspetti sui quali la malattia ci chiede di risvegliarci. Inconsciamente dalla prima infanzia impariamo a temere noi stessi, e quindi la vita così come individualmente la percepiamo; inoltre siamo collettivamente immersi in un campo energetico di paura, e questa è una delle ragioni per cui ci ammaliamo sempre di più. La malattia viene a suonare la sveglia: “Voglio vivere veramente?” Se veramente lo voglio, mi serve essere cosciente della paura….e imparare a procedere tenendola per mano…

Pongo una riflessione interessante: come mai un mammifero animale, quando si ammala, non entra in uno stato agitato di paura/emergenza?
Il sistema intelligente dell’animale mammifero non contempla la malattia come un evento di sopravvivenza, bensì come un normale evento biologico; riporta l’animale malato in un set up di riposo, rilassamento, auto accudimento e auto cura di sé; e riduzione dell’azione muscolare/fisica.
Perché allora noi mammiferi umani associamo la malattia alla paura della morte?
Perché tendiamo comunemente a leggere la paura solo dal nostro sistema protettivo, di allarme?
Perché noi umani arriviamo a generare l’ipocondria, che è anche peggio di tante semplici malattie corporee?

Occorre avere un minimo di chiarezza e informazioni rispetto alla paura:

·         È un sistema di default presente nel nostro organismo corpo/mente

·         È progettata per tutelarci dal pericolo e dalle aggressioni/minacce, così come negli animali mammiferi

·         Risponde a percezioni ignote alla memoria esperienziale e quindi, dal punto di vista del codice protettivo, pericolose a priori

·         Produce reazioni corporee e comportamentali, aumentando le energie fisiche a disposizione negli apparati preposti alla fuga/attacco

Nei mammiferi, non esistendo per loro il concetto di morte, non esiste la paura della morte o della malattia come potenziale pericolo di morte

Gli umani, a differenza dei mammiferi, possono invece allucinare la paura:

– per fattori esistenziali (e non di sopravvivenza fisica/territoriale)

– come per esempio la paura di non essere all’altezza (che nell’animale non esiste)

– credono in un qualche concetto di morte: morte = vuoto – dissolvenza – assenza – abbandono – non ritorno

– allucinano quindi la paura della morte in associazione agli aspetti sopra citati, che sono tutti esistenziali e non biologici

Esempio: se vado su un ponte a fare bunjee jumping, che sia per me la prima volta, sia che io lo abbia già fatto, di fronte al vuoto del salto inevitabilmente sentirò la paura biologica, quella di default. Poi razionalmente posso informarmi sul fatto che il 99,9% di chi salta torna indietro integro e sano: posso vedere che chi ha saltato prima di me è tornato eccitato e gasato; cioè posso fornire al mio cervello cognitivo un riferimento sicuro di ritorno dal salto; conseguentemente trovo la forza di saltare, pur avendo con me la paura. L’unione della presenza consapevole a se stessi e alla paura stessa corrisponde a ciò che chiamiamo coraggio: infatti, prima del coraggio, hai sentito paura: giusto?
Riportando tutto questo alla malattia e alla paura della morte: non abbiamo nessun riferimento razionale e sicuro da dare al cervello rispetto alla morte; per il semplice motivo che chi è entrato nella dimensione extra corporea non è mai tornato a dirci che di là va tutto bene…. E se in pochi sporadici episodi è accaduto, collettivamente permane il panico rispetto al morire.
Ma come mai la diagnosi di una malattia dovrebbe farci pensare alla morte e quindi inculcare in noi la paura?
Perché la malattia mette in discussione l’intero set up di vita, così come ci crediamo e come lo abbiamo costruito: se mi sono occupato primariamente di sopravvivere, per sedare la mia insicurezza esistenziale, avrò timore di ogni piccolo evento che metterà in crisi il mio set up protettivo/anti paura da sopravvivenza.

Aggiungo inoltre alcuni fattori collettivi di informazione terroristica rispetto alla malattia:

– il primo terrorismo è che non si insegna una pro/attività rispetto alla malattia

– si insegna a delegare la propria guarigione a qualcuno e a correre a comprare farmaci (quelli vengono pubblicizzati, l’educazione alla pro-attività no)

– non viene sviluppato il senso dell’auto accudimento

– rimaniamo tutt’oggi ignoranti (non in termini informativi, bensì in termini di attuazione consapevole) rispetto all’interazione mente/corpo, pensiero/salute

– non conosciamo le potenzialità di auto riparazione del corpo e le modalità con cui esso le attiva

– il sintomo è già segnalatore di un processo di auto riparazione, mentre noi lo leggiamo come un pericolo da annientare

La malattia costringe a uscire dalla propria zona di comfort.
E’ la personalità a essere molto turbata da ogni evento che può destabilizzare il suo set up fisso di abitudini e comportamenti, non il corpo: la personalità è refrattaria al cambiamento

L’ego/personalità è terrorizzato dalla morte:

– l’ego nel vuoto non esiste, non può contemplarlo

– ogni cosa che può ricondurre alla morte/vuoto, come una malattia, per l’ego/personalità è pericolosa e quindi carburante per allucinare paura biologicamente infondata.

L’ego/personalità è una struttura protettiva che nasconde la nostra vera identità: viene infatti definita Falsa Immagine di Sé. È un meccanismo che si fonda su memorie di mancanze e traumi, e che vive costantemente in un attrito; l’attrito di come in quelle memorie negative ci siamo spezzati in due:

– da un lato vive la forza della parte di noi che ha subito la mancanza, che ha vissuto un trauma: e che vuole intelligentemente far emergere alla luce della coscienza ciò di cui necessita, per essere liberata e reintegrata

– dall’altra c’è l’allucinazione protettiva che è diventata un punto fermo della Falsa immagine di noi, con cui abbiamo reso accettabile qualcosa che non lo era; e che contrasta la prima forza per non farla emergere

– questo attrito è l’humus che genera malattie da dualità, come il cancro o le autoimmuni nel corpo; o la schizofrenia nel mentale

Perché quindi, come degli automi, crediamo e diamo valore e a una paura allucinata, figlia di una credenza inconscia altrettanto allucinata, fasulla e disfunzionale?

Semplifico la risposta: sin dalla prima infanzia abbiamo imparato a temere la nostra potente vitalità; nella paura di chi siamo siamo stati obbligatoriamente costretti a temere anche la potenza della vita = abbiamo paura di vivere veramente.

 Tutto questo ci fa comprendere che c’è una stretta correlazione tra malattia, paura e ego/personalità: si evince così una interessante equazione

Se la malattia spaventa la personalità
E se è vero che l’ego/personalità è una struttura protettiva
che nasconde la nostra vera identità
Allora la malattia può aiutarci a smascherare la personalità
Per ricondurci all’individualità/Essere
Se entriamo nell’individualità (dal latino individuus = ciò che non è divisibile = no dualità/attrito) annulliamo l’attrito malato della personalità
E cosa farà il corpo liberato da quello storico attrito?
Sarà disoccupato dal continuo tentativo di riparare i danni causati dall’attrito
E certamente liberato dal dover per forza di cose manifestare sintomi di malattia. 

Pertanto chi conosce solo la falsa dimensione dell’ego/personalità sarà sempre costantemente allarmato dal variare del proprio stato corporeo: e terrorizzato in caso di diagnosi di malattia; per questo l’ipocondria sta diventando un fenomeno collettivo, gli ospedali sono stracolmi e le malattie aumentano incessantemente di numero e di varietà. 

Per chi invece si dedica alla conoscenza e incontro con il proprio Essere/Individuo, la malattia rappresenterà sicuramente
almeno tre cose:

1.      Il ricordare amorevolmente che il corpo è mutevole e con il tempo va a spegnersi: si può ammalare e questa opzione è un evento da includere nella normalità di una esistenza

2.      un segnale che c’è in ballo un po’ di falsità e relativo attrito interno

3.      che è tempo di dedicarsi allo splendore sano dell’Individuo

In ogni caso, è inevitabile che al ricevimento di una diagnosi di malattia scatti la paura:

– se i sintomi ci sono sconosciuti (difficilmente si va in panico se il naso cola per un raffreddore…. Ci ricordiamo di quei sintomi, li conosciamo…)

– se non si è mai dovuto fronteggiare malattie impegnative

– o perché, come negli animali, quella malattia ci è sconosciuta e mnemonicamente risulta quindi senza riferimenti esperienziali propri e sicuri.

In quel momento, un po’ come sull’esempio del ponte, abbiamo un’opportunità: con quale riferimento interno
(pensiero, emozione, stato interiore) rispondo alla paura?

 Non potrò evitare che scatti la paura biologica legata a percezioni a me finora ignote: per questo abbiamo visto che, se le diamo in risposta un riferimento sicuro, essa non ci paralizza e ci permette di saltare nell’esperienza

Il riferimento sicuro da fornire al cervello cognitivo, affinché sia informato e produca una reale percezione di sicurezza,
deve essere un riferimento prima di tutto esistenziale:

– sì, perché nessuno ha in mano la manopola che decide quanto a lungo vivrà il corpo….

– mentre tutti abbiamo in mano la manopola di come vogliamo stare nelle cose che viviamo…. A cura di Abheeru R. Berruti

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La malattia è una straordinaria occasione per essere consapevole. Quando la malattia è lì, ricordati che ci sei anche tu. Lei è ospite nella tua casa: ha bussato alla tua porta e per qualche tempo ti farà compagnia. Tu sei l’oste: la casa è tua. Ricordati dell’oste.

Per aiutarti a ricordare, ecco per te un brano di Osho (liberamente tradotto):

La consapevolezza è così vicina quando stai male; è proprio lì, al tuo fianco. Deve essere così; altrimenti il male non può essere curato. Dev’essere vicina a sufficienza da poter sentire il dolore, da poterlo conoscere, da esserne consapevole. Ma a causa di questa vicinanza spesso tu ti identifichi con il dolore. E’ una misura di sicurezza, del tutto naturale. Quando hai male la tua consapevolezza deve andare di corsa verso il dolore – per sentirlo, per fare qualcosa a riguardo. A causa di questa vicinanza avviene l’identificazione.

Osho continua dicendo che tu non sei ciò di cui puoi diventare consapevole; tu sei colui che ospita tutte queste sensazioni e stati d’animo che vanno e vengono. Non perderti nella folla di ospiti.

Ricorda che tu sei l’oste.
Ricorda l’oste. Quando arriva l’ospite, ricordati dell’oste. E ci sono così tanti tipi di ospiti: piacevoli, dolorosi; ospiti che ti piacciono, ospiti che non desideri, ospiti con cui vorresti convivere, ospiti che vorresti evitare a tutti i costi. Ma sono tutti ospiti. Con costanza, ricordati che tu sei l’oste, resta centrato in questo. Così ti accorgi che c’è una separazione – uno spazio, un intervallo – il ponte si spezza… allora tu sei nel [dolore] non sei il dolore. Allora tu puoi fare esperienza dell’ospite dolore senza essere identificato con esso, restando l’oste. Allora non c’è alcun bisogno di scappare dall’ospite – non ce n’è alcun bisogno.

A cura di Vistara Elena Fammartino

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La terza settimana entriamo in contatto con la paura che portiamo, ma che non siamo. 

La paura della paura…nello sforzo costante di controllarla, non ci rendiamo conto di quanto potere diamo a questa emozione che in origine è un elemento importante e necessario con cui il nostro sistema ci avverte di un pericolo. Nella normalità essa, come tutte le emozioni ha una durata breve (circa novanta secondi), ma con il tempo diventa più presente ed estenuante, soprattutto in situazioni che richiedono lucidità e determinazione. C’è un modo per viverla senza perderci in essa? La potente energia che è in noi e ci travolge? La domanda è spontanea, soprattutto in situazioni difficili. Nei casi dove il corpo deve occuparsi della sopravvivenza fisica, nei quali è necessario che abbia tutta l’energia a disposizione per riparare, curare e rigenerare, subentra la paura o altra emozione che prende buona parte di energia per mantenere vivo lo stato di allerta. A lungo andare diventa spossante invece che di aiuto per il sistema, come una sirena di allarme che non è stata spenta nonostante l’arrivo dei soccorsi e continua a urlare disturbando l’operato degli esperti. 

La pratica del respiro consapevole rinforza il contenitore, lo rende, alla nostra percezione, capace di contenere ciò che prima era impossibile, comprese le forti emozioni. L’ambiente interiore che andiamo a creare è uno spazio in cui possiamo lasciar manifestare, in cui conoscere, entrare in relazione nel “sentire” di quelle determinate sensazioni o emozioni che tanto ci prendono; possiamo imparare ad accettarle per ciò che sono e divenire a nostra volta elemento funzionale invece che resistente. 

Il suono o voce cantata, come la definisco io, è uno strumento di espressione e manifestazione delle energie che sono all’interno di noi. È preziosa utilizzata come convogliatore, mezzo consapevole di esternazione. La possibilità di liberare ed evolvere suoni che ci educano all’ascolto della paura e ne ridimensionano l’idea che abbiamo di essa, agevola il percorso di centratura che abbiamo iniziato e amplia ulteriormente la comprensione di sé e di ciò che si sta vivendo. 

A cura di Simonetta Buratti

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È ormai sempre più chiaro che non esiste una sola e unica medicina e che le strade della guarigione scorrono necessariamente attraverso l’integrazione di più saperi e di più prospettive. Nella mente di molti – ricercatori, medici e pazienti – si sta facendo strada la convinzione che il corpo e il cervello parlano fra loro e si influenzano reciprocamente, nella salute come nella malattia

Questa convinzione, già ben chiara nei saperi della Medicina Ippocratica e delle Medicine Orientali, trova oggi fondamento scientifico nelle Neuroscienze, nella Psico-neuro-endocrino-immunologia, nella Medicina Centrata sulle Emozioni come ponte tra psiche e soma e nell‘Energia, come chiave essenziale della vita

Alla luce delle più recenti ricerche di neurofisiologia, scienze della psiche e fisica quantistica, vediamo i sette principi della potente interazione tra psiche e corpo nei processi di guarigione, fornendo risposte scientifiche agli interrogativi sui meccanismi che la attivano e individuando le terapie che consentono di accendere questi interruttori profondi

1) Non possiamo più prescindere dal concetto dell’unità psichesoma, se vogliamo governare davvero e profondamente i processi di cura e guarigione. La guarigione autentica e completa passa necessariamente attraverso la cura delle ferite psichiche o il superamento dei blocchi emozionali, dei nodi esistenziali, degli schemi e delle credenze limitanti

2) Subconscio e inconscio esistono e guidano la vostra vita molto, molto di più della parte conscia e della mente razionale

3) Le emozioni sono centrali per la nostra sopravvivenza e per il nostro benessere psicofisico, ma anche la fonte delle capacità di autoguarigione e riparazione dallo stress

4) La nostra vita e la vita tutta intorno a noi, ha un’esistenza energetica. Esiste una completa interconnessione, una matrice che sottende la materia in cui le leggi spazio-temporali non esistono più. Le vibrazioni e possibilità di trasformazioni istantanee

5) Esistono differenti piani di esistenza e la guarigione completa passa proprio dal raggiungimento dei piani superiori: i piani animici e spirituali

6) Oggi esiste la possibilità di impiegare una medicina integrata che, sulla base di studi rigorosi e scientificamente validati, vada sempre più nella direzione di attivare la salute dall’interno

7) Si può avere una chiave di lettura di ciò che accade nell’unità psichesoma, mettendo in relazione il disturbo con il piano di esistenza  da cui probabilmente origina, per comprendere quale intervento sia preferibile utilizzare

*Dunque se si parte da una situazione di sanità, ci si ammala e questo vuol dire che stiamo  chiedendo a noi stessi di comprendere qualcosa che la malattia stessa rappresenta.

Il guarire vuol dire comprendere le cause della malattia e risolverle. Il soggetto malato, se decide di guarire, cercherà una soluzione e, se comprende che, per guarire, deve acquisire consapevolezza di sé, metterà in atto una strategia opportuna. A questo punto può decidere di non voler ricordare cosa ha  creato il suo problema cioè decide di guarire, ma non di acquisire consapevolezza del significato della propria malattia. Inevitabilmente la sua coscienza lo riporterà a seguire il loop e tornare ad avere la malattia perché lui possa decidere in un giro di giostra successivo di cambiare strategia. Fino a quando il soggetto non decide di rivivere il momento della propria iniziazione alla malattia, riconoscere ciò che non è armonico e correggerlo, rimarrà malato. Il medico al massimo può insegnare come guarire, ma non guarisce  perché la guarigione è legata alla consapevolezza che ognuno deve seguire: un cammino di propria coscienza (autocoscienza) e non utilizzare la coscienza di altri perché ciò non funzionerà mai.*

(Da Corrado Malanga)
A cura del Dott. Devalaya Claudio De Santi

MALATTIA & FELICITA’ – Modulo Accoglienza – settimana 2.

Per poter instaurare una relazione collaborativa con la malattia, ci è necessario passare dalla frequenza mentale a quella del Sentire. L’attività del mentale divide le esperienze che viviamo per categorie: giusto o sbagliato, vero o falso, ecc….: nella frequenza mentale assistiamo a un continuo oscillare di pensieri schizofrenici, dove un giorno leggiamo gli eventi in un modo e il giorno dopo li leggiamo al contrario; un giorno siamo positivi, un giorno negativi. 

Questa altalena giudicante non è di nessun beneficio: genera stress perché non porta a nessuna realizzazione; senza una accettazione e comprensione rispetto a quanto ci accade non ci possiamo rilassare, costringendo il corpo a una condizione di tensione e limitandolo nella sua naturale capacità di riparazione.
Dobbiamo però prendere coscientemente atto che, se siamo malati, la malattia è con noi; non si può dividere questa fattualità, è così.

Ciò che diventa urgentemente necessario quindi, soprattutto in caso di malattie importanti, è di creare una neutralità di giudizio rispetto a quanto viviamo, per poter stare con ciò che è in una condizione di serenità. Per poterlo fare dobbiamo ripristinare la nostra connessione consapevole con l’Intelligenza Sensibile, che è la forma di intelligenza più elevata di cui siamo dotati.

Nel Sentire siamo predisposti all’unione, a includere quanto c’è di vivo in noi, anche la malattia: per accedere al Sentire ci serve scavare il sentiero che ci conduce al nostro mondo interiore, quello che in Malattia & Felicità chiamo lo Spazio Interno.
E’ la dimensione dell’Essere, e non del mentale: la malattia non significa solo che il corpo è malato, perché il corpo non è scindibile né dal mentale né dall’Essere (ti chiami Essere Umano, Essere ….. ricordi?): se il corpo si è ammalato significa che da qualche parte, dentro di noi, c’è un mentale ammalato che rende infelice il tuo Essere.

Dallo Spazio Interno dell’Essere, vuoto, accogliente e pacifico, possiamo leggere l’evento malattia come una parte di noi, e non come un nemico: e imparare a trattare la malattia stessa per ciò che è, cioè un’informatrice di malessere prima di tutto esistenziale che viene da noi per risvegliarci a qualcosa, non per punirci.

A cura di Abheeru R. Berruti

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Cosa dice la Medicina Tradizionale Cinese della malattia.

Per comprendere come i Cinesi consideravano la malattia, bisogna premettere alcuni concetti.
Yin e yang sono la tela della vita, l’origine di ciò che esiste e del suo trasformarsi. C’è poi una stretta correlazione tra yin e yang e la presenza dell’uno all’interno dell’altro: le nuvole sono nel cielo, derivano dal qi del cielo, ma sono ‘qi della terra’ che sale verso il cielo. La pioggia va alla terra, deriva dal qi della terra, ma è qi del cielo che scende verso la terra. Le nuvole sono infatti vapore che sale dalla terra grazie al calore del cielo che rende sottile l’acqua, la pioggia scende dal cielo perché il vapore si condensa con il freddo.
Nella concezione dinamica cinese fondamentale sono le qualità funzionali, il tipo di azione, la direzione del movimento: lo yin è quiete, un andare verso l’interno, ricettività; lo yang è movimento, un andare verso l’esterno, attività, lo yin concentra, fa scendere, raffredda, lo yang espande, fa salire, riscalda.
In medicina la relazione tra yin e yang è la base che permette di comprendere fisiologia e patologia e che guida il processo diagnostico, i principi terapeutici e il trattamento.
In generale lo yin nutre, lo yang muove, lo yin conserva, lo yang trasforma.
La coppia cielo-terra si estende ai concetti di alto e basso e di movimento di salita e discesa.
Nel corpo umano si distinguono parti yin quali l’addome, l’interno del corpo, il basso, rispetto a zone quali il dorso, la superficie, l’alto che sono yang.
La pelle ad esempio è yang rispetto alle ossa, che sono profonde, gli organi sono yin – conservano – e i visceri sono yang – trasformano.
Il corpo è materia-yin rispetto alla funzione che è movimento-yang.
Il sangue è yin rispetto al qi, che è più sottile.
Le polarità yin e yang rimangono comunque complementari e si definiscono sempre e solo all’interno del rapporto tra i due elementi della coppia.
Nelle coppie degli otto principi diagnostici yin si riferisce a interno, freddo e vuoto, yang è esterno, calore, pieno.
E’ di ordine yin una patologia che ha caratteristiche di freddo, persiste nel tempo, ha un’insorgenza lenta, mentre appartiene allo yang se mostra segni di calore, cambia rapidamente, presenta un andamento acuto.
I vari processi patogenetici sono riconducibili alla relazione tra yin e yang.
L’insufficienza o l’eccesso o di yin o yang danneggiano il polo opposto.
Se lo yin è insufficiente si ha un eccesso relativo di yang, con manifestazioni di fuoco che derivano dal vuoto di yin: ne è un tipico esempio la sindrome climaterica con vampate, sudorazione notturna, irrequietezza, bocca secca, cioè manifestazioni di calore che sale all’improvviso all’interno di una condizione di vuoto. Situazioni analoghe sono quelle in cui lo yin è consumato dall’eccesso di lavoro mentale, da preoccupazioni e ansia: l’irrequietezza di giorno e l’insonnia di notte mostrano come la perdita della radice faccia “galleggiare” lo yang.
D’altro lato nei quadri di debolezza dello yang si ha un prevalere di segni e sintomi yin: debolezza, astenia, freddo, pesantezza, accumulo di liquidi.
Il termine Qi viene tradotto generalmente come ‘energia’, ma a volte anche come ‘soffio’ o ‘forza vitale’. Il Qi è l’energia che muove e che permette la vita dell’universo e dell’uomo, dal suo condensarsi, originano tutte le manifestazioni dell’esistente.
Il Qi è sostanza sottile, è materia ed energia (l’onda e la particella della fisica quantistica) allo stesso tempo, è vitalità indifferenziata e articolazione in forme più specifiche.

Il Qi dell’uomo è parte del Qi dell’universo ed è specifico del singolo individuo, costituisce il corpo umano nel suo complesso e lo fa funzionare.

A cura del Dott. Devalaya Claudio De Santi

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In questo secondo appuntamento facciamo un passo di amplificazione della percezione del corpo come contenitore flessibile, con il respiro consapevole. Questi passaggi consentono di fare esperienza sensoriale interna del corpo e muoversi così dalla convinzione di esso come figura o forma esterna in cui ci identifichiamo, a un mondo vivo che ci contiene e che ha una diversa possibilità di confine. La percezione dei suoi limiti è determinata dal senso che abbiamo di esso, dall’idea di “come ci percepiamo”.  

Il corpo comunica, ci parla costantemente, attraverso le sensazioni e le emozioni; esso ci da sempre un riscontro nel qui e ora del suo stato, di modo che possiamo agire per il benessere generale. Purtroppo, quello che noi agiamo è determinato da abitudini acquisite e da regole di una società che ci vuole sempre al top, nella corsa impulsiva verso il “fare” e il “dopo”. Difficilmente siamo connessi alla sapienza interiore di stabilità. 

Non è necessario stravolgere la propria vita e far crollare il sistema che abbiamo creato, ma è importante ritagliare dei momenti in cui possiamo ritrovare il centro di equilibrio HARA, o quanto meno inizialmente dargli una possibilità di collocazione. 

IL CENTRO HARA:

Trovare e coltivare, con qualsiasi tipo di pratica, il proprio centro Hara è tornare al nucleo, avere un punto di vista più ampio e chiaro che permette di osservare la situazione, la relazione o la tematica che ci mette in apprensione, senza alimentare maggiormente l’emozione. Hara significa “pancia”, secondo il sistema energetico giapponese. È situato circa due dita sotto l’ombelico, nel quale è immagazzinata l’energia vitale originale, cioè l’energia con cui nasciamo, quella ereditata dai genitori, ma anche quella che ci connette alla forza universale. È molto importante potenziare la consapevolezza di questo centro energetico, poiché esso è il fulcro dell’asse del corpo e ristabilisce la connessione con l’energia originale permettendo l’accesso alle qualità insite e alla radicalità più profonda, lo “stato di presenza”. La pratica fondamentale della centratura nell’Hara, con l’uso della respirazione circolare lenta e profonda, aiuta a calmare la frenetica attività mentale e ritrovare la forza e vitalità, anche solo per pochi attimi. Gli esercizi sono di collegamento con questo centro attraverso una naturale postura di verticalità decontratta in cui si fa l’esperienza del canale vocale in cui scorre l’energia vitale, liberata dalle tensioni. In questo stato l’energia fluisce in un corpo che è maggiormente dinamico, presente e l’attenzione si concentra senza sforzo. 

La conseguenza naturale è l’apertura del cuore che espande l’energia intorno a noi. 

Nella mia storia personale ho collegato l’esperienza della centratura Hara con la giostra “Tagadà”. Da ragazzina avevo un amico che passava ore su quella giostra, in piedi al centro, muovendosi e accordandosi al movimento che cambiava; non cadeva mai. Io lo guardavo da sotto affascinata, la percezione che avevo di lui era di leggerezza e fluidità, come una pianta di giunco mossa dal vento in un mare di caos. Dopo molti anni, praticando la centratura ho compreso lo stato di “equilibrio instabile” ricordando il mio amico. La natura e quindi anche l’essere umano sono gestiti dal principio della continua evoluzione: caos, riorganizzazione ed equilibrio. Il corpo come ogni forma di vita risponde al principio dell’evoluzione nella flessibilità, perché è solo mantenendo lo stato di flessibilità che non ci si spezza.  È la capacità di accettare il caos, entrare nel centro con duttilità mentre gli eventi si muovono e ci chiedono un costante allineamento alle forze della vita. L’emissione vocale e sonora in questa pratica aiuta a radicarsi in basso, sulle gambe, nelle caviglie e nei piedi che ci ancorano al terreno, al qui e ora, lasciando libera la parte alta del corpo di muoversi e fluire con gli eventi.

La posizione ideale è in piedi, ma ho scoperto nel tempo e nella pratica, che nei momenti in cui non mi era possibile stare nella posizione, potevo acquisire la stessa qualità energetica ponendomi mentalmente in quella posizione e lasciando che nel corpo si creasse il canale centrale aperto alla respirazione libera ed energizzante. Questo mi ha fatto capire quanto sia importante e potente l’intenzione. Niente è impossibile se mi rilasso e lascio che accada.

A cura di Simonetta Buratti

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MALATTIA & FELICITA’ – Modulo Accoglienza – settimana 1.

L’essere umano in Omeopatia non è considerato un insieme di organi ed apparati in relazione organica tra di loro, ma un “Sistema biologico” caratterizzato da un elevato grado di ordine che si mantiene senza l’intervento di alcun agente ordinatore esterno.

Condizione indispensabile perché tale ordine interno si mantenga è che il Sistema biologico possa dissipare tutta l’energia che produce attraverso i processi metabolici o attraverso quelli che prende dal mondo esterno (calore, cibo emozioni, sentimenti). Produzione e dissipazione di energia rappresentano due meccanismi intimamente connessi. Un ostacolo alla dissipazione di energia costituisce quindi la premessa alla malattia, costringendo l’organismo vivente ad aprirsi canali secondari dispersivi. Da queste premesse possiamo considerare la malattia come un mezzo attraverso il quale un organismo vivente cerca di mantenere il suo ordine interno in condizioni ambientali avverse al fine di garantire la sopravvivenza dell’organismo stesso. Intendendo per Energia vitale la Materia “informata”, possiamo definire la malattia una disarmonia dell’Energia vitale.

Cosa sappiamo dell’ENERGIA VITALE? È un termine spesso usato nel linguaggio comune per descrivere come stiamo: oggi non ho tanta energia; questa mattina sento un’energia scoppiettante; parlare con te mi ha dato energia; alla fine della riunione non avevo più un briciolo di energia. Tanti modi per esprimere qualcosa che tutti percepiamo abbastanza chiaramente. Ecco, questo termine, per la medicina clinica non esiste, perché non è misurabile e quindi non riportabile nel campo del metodo scientifico. Mentre è alla base di tutte le medicine tradizionali compresa l’Omeopatia. Esiste una sola malattia: lo squilibrio della FORZA VITALE, che si manifesta in una moltitudine di modi diversi. Modi che chiamiamo con nomi che evocano patologie più o meno gravi, ma anche modi che designano un disagio psichico, emotivo, animico o spirituale. Se guardiamo bene, tutta la nosologia clinica e psicologica può essere ricondotta ad una alterazione della FORZA VITALE.

A cura del Dott. Devalaya Claudio De Santi

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Gli incontri di consapevolezza vocale che andremo a fare in questo primo modulo sono parte di un metodo olistico da me sviluppato nell’intenso percorso di crescita personale e dalle conoscenze acquisite negli anni di formazione professionale come Counselor e Operatore Olistico Voce&Suono, annesse alla attività continua di canto corale.

A un certo punto della vita, mi sono trovata a un bivio rendendomi conto di non avere più tanto tempo e che doveva cambiare qualcosa se volevo uscire dall’unica possibilità che avevo seguito fino a quel momento: la visione passiva della vita.  

Questa è in breve la storia, da cui parte la mia relazione interiore fatta di respiro, canto e allineamento corpo-mente-spirito.

Consapevolizzare e coltivare il respiro (in questo percorso utilizzeremo il respiro circolare lento e profondo) è una pratica millenaria che apporta benefici. Tra le sue infinite qualità, il movimento respiratorio espanso aiuta a elasticizzare la cassa toracica, tonificare il diaframma e massaggiare gli organi interni della pancia. Favorisce uno stato interiore di calma, in cui è possibile recuperare energia necessaria al corpo per vivere, aiuta l’acquietarsi dalla frenetica attività mentale e facilita lo stato di attenzione senza sforzo. Coltivando queste condizioni, nel tempo, la nostra struttura può evolversi da una condizione di contrattura e chiusura, a una disposizione di maggiore apertura e disponibilità verso l’esterno e la vita. Con pazienza e fiducia, ho scoperto che nonostante una struttura rigida e contratta dalla paura accumulata, c’era la possibilità di pormi in una condizione di ascolto, con attenzione alle infinite opportunità di vivere il qui e ora. Un passo alla volta con gentilezza e amorevole fiducia, mi sono fatta accompagnare dal respiro ogni giorno nello spazio di quiete che è il centro, da cui ogni singolo e prezioso elemento coopera in sinergia con gli altri a beneficio dell’insieme.

Aggiungere all’attività del Respiro consapevole la pratica della voce cantata è stato amplificare e consolidare maggiormente uno stato di presenza, che era altro da me e che abitava in me. Il canto è un veicolo di piacere e gioia che rigenera e nutre, è strumento alchemico di liberazione e integrazione energetico. Nella pratica si espande ulteriormente la consapevolezza del corpo come Essere con cui relazionarsi e il suono cantato assume il ruolo di catalizzatore e rigeneratore energetico, nonché strumento di benessere, tanto che il detto antico “canta che ti passa” è fondato su una verità che ognuno di noi può esperire in qualsiasi momento.

In questa settimana andremo a consapevolizzare come primo punto la disponibilità a utilizzare questi due strumenti, qual è il pensiero che abbiamo nei confronti di essi e quanto possiamo affidarci in questo nuovo viaggio percettivo. 

È importante chiarire che ognuno ha una storia, una condizione fisica ed energetica unica e quindi tutte le sperimentazioni che andremo a fare saranno autoregolate da ognuno in base alle proprie necessità del momento.

Faremo un primo passo nell’esperienza del respiro come “altro che si muove in me” e da esso ci faremo accompagnare a percepire la flessibilità del corpo che possiamo riconoscere come contenitore in cui accogliere ciò che è in me oltre me (respiro, emozioni, sensazioni). 

Le vibrazioni del canto che andremo ad ascoltare andranno a risuonare in noi favorendo lo stato di quiete e centratura.

A cura di Simonetta Buratti

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Non si è mai veramente preparati a ricevere la notizia di una malattia: è come ricevere una lettera da un mittente misterioso che ti comunica che la direzione della tua vita da quel momento avrà una decisa deviazione. Il modo in cui risponderai a quel momento determinerà la qualità con cui proseguirà quella nuova storia. Per questo allenare l’abilità di risposta a quella inaspettata sorpresa è fondamentale: perché se rispondi bene, ti darai l’opportunità di vivere l’esperienza della malattia con il sorriso (e con molte più risorse a disposizione…).
Diversamente, rimanendo cioè ignoranti rispetto alla nostra capacità di creare risposte positive agli eventi della vita, abbiamo a disposizione unicamente le reazioni protettive del cervello Limbico: nel suo archivio difficilmente si trovano memorie positive e serene rispetto alla parola MALATTIA. Ricordo bene cosa mi accadde quando ricevetti la diagnosi del Linfoma: il mio cervello protettivo si scatenò con un putiferio di pensieri ed emozioni nefaste.

Tutte le emozioni negative che si scatenano quando incontriamo la malattia esistevano già da prima nel nostro cervello: non solo, per evitarle abbiamo costruito schemi mentali, comportamentali e attitudinali rigidi, credendo che in quel modo mai avremmo incontrato pericolosi imprevisti; siamo collettivamente molto condizionati a creare false sicurezze e la malattia, quando arriva, le abbatte come le tesserine del Domino.

La malattia fa emergere semplicemente le paure esistenziali che già ci portavamo dentro: non solo, ci sono alte probabilità che si sia generata a causa dell’attrito interno cronico che tutte le memorie di paura inconsapevolmente ignorate vanno a creare nel nostro sistema corpo/mente/spirito.
Dal mio punto di vista la Sig.ra Malattia quindi non è una notizia dannosa, ma un’opportunità evolutiva: così come accaduto nella mia esperienza, e in quella di molte altre persone, ti conduce a incontrare i tuoi timori profondi; a conoscerli; ad attraversarli; a scioglierli per tornare a essere un umano libero e felice.

A cura di Abherru R. Berruti

Intervista al Tumore

MALATTIA & FELICITA’ – INTERVISTA AL TUMORE

“Dopo anni di convivenza col tumore, mi sento di poter affermare che il cancro è principalmente una malattia dell’Anima. Il tumore è come un figlio che vive nella casa del genitore che lo ospita, e dal quale non è ascoltato, né visto e compreso: il figlio tenta allora di manifestarsi a modo suo, con un suo linguaggio e con codici apparentemente illeggibili,  che spesso si scontrano con quelli familiari.

È un tentativo disperato della nostra parte sensibile di far emergere una qualche necessità vitale ed insoddisfatta e non percepita dalla parte cosciente in noi. Sottolineo che tutto questo va molto oltre la logica analitica con cui noi umani cerchiamo di leggere la realtà e vivere la vita: infatti sul piano biologico ciò si traduce nella formazione di cellule anomale, che cercano di fare una loro vita, diversa e spesso opposta alla vita della famiglia cellulare che le ospita.

L’idea terapeutica generale è di uccidere il cancro: lui riceve le legnate farmacologiche, ma spesso non fa una piega e ritorna. Dati statistici recenti censiti negli USA ed in Australia ( l’Italia segue questo trend) riportano un aumento dei casi di tumore del 6% annuo; nella Regione Piemonte l’aumento dei casi di recidive è stato del 20% negli ultimi dieci anni. Dal mio personale punto di vista, queste percentuali riflettono l’aumento del malessere di un’umanità che ha perso il contatto con la propria essenza; che si è rifugiata in un individualismo estremo ed in un’anestesia dal sentire le voci interiori ed i bisogni più veri e umani.

 Le migliaia di informazioni disastrose che ci vengono servite quotidianamente danno la dimensione della malattia in senso sociale: il mondo ha il cancro, e conseguentemente tanti suoi rappresentanti ne diventano testimoni. Fatte queste considerazioni, penso che i progressi medico-scientifici, senza un’integrazione con un lavoro mirato a ristabilire una connessione con le qualità dell’Anima, non potranno avere risultati incoraggianti nella riduzione delle casistiche oncologiche: il male non si origina nei corpi, sono i corpi che cercano di farcelo vedere.

Ma qualcuno si è mai chiesto quale possa essere il punto di vista del cancro?

Dopo averlo intervistato ho compreso che esso non ha nessuna intenzione bellicosa o distruttiva: vuole solo far sopravvivere una parte remota dell’Anima.

Non vuole uccidere la persona: ma chiede disperatamente che la falsa persona, la struttura egoica insensibile che spesso governa il nostro agire, si faccia da parte. Siccome l’Ego si fa materia attraverso il corpo, il piccolo tumore non ha scelta: per sciogliere le sbarre dell’Ego può solo agire sul corpo fisico.

È solo quando ci liberiamo dalle tenaglie difensive della personalità, che ci impediscono di comunicare con la malattia, che possiamo accedere  ad una dimensione di grande sensibilità e, da qui, alle frequenze elevate che includono la guarigione; è solo in questo spazio di coscienza  elevata che  possiamo dare la libertà al tumore.

La libertà del tumore è la liberazione del messaggio che contiene.

 Questo non è garanzia di avere un corpo che vivrà sano in eterno: ma è la certezza di poter vivere in una connessione piena con la nostra Anima e di manifestarla coerentemente in ogni singolo istante di vita che ci è concesso. Soprattutto è un’enorme chance per cominciare a riempire l’etere, i corpi ed i cervelli di informazioni positive associate alla parola tumore: il nuovo bagaglio informativo ed i relativi codici genetici sull’argomento cancro che possiamo lasciare alle future generazioni, potranno in futuro sostituire l’ equazione  tumore = morte con tumore =  gioia e manifestazione di sé.

Questa è per me l’unica vera medicina risolutiva: guarire gli esseri umani per guarire i loro corpi.
E già che ci siamo, sostituiamo la parola tumore con TU-(A)MORE.”

                                                                                               Abheeru R. Berruti

Il Nuovo Mondo: una nuova educazione per generare esseri inter-dipendenti

IL NUOVO MONDO

Informazioni per lo sviluppo di una Nuova Educazione per genitori, insegnanti, bambini e ragazzi, fondata su Relazioni Autentiche e Rispettose, sul Benessere e sullo Sviluppo dell’Attitudine Creativa.

A cura di Abheeru Roberto Berruti

Amore Condizionato

Di Mauro Scardovelli

(amico e collega di grande qualità professionale)

Se un padre vede il figlio come un suo prolungamento, se desidera ardentemente che nella vita realizzi certi traguardi, ottenga determinati risultati, occupi una certa posizione, si può dire che ami suo figlio? Se si sacrifica per lui, se fa in modo che abbia più del necessario, se lo protegge da ogni sofferenza? Se lo guida passo a passo nelle scelte che compie, in modo che corrispondano alle sue aspettative? In modo che suo figlio impari ad assecondare il tipo di esistenza che ha sognato per lui? E’ questo che si intende per amore?

Un figlio che vive un tale rapporto con il padre, può dirsi libero? Libero di esplorare, di cercare la sua strada, di sbagliare, pagarne il prezzo, cercare ancora?

Chi, dosando attenzione, affetto, cura, condiziona un’altra persona, la ama davvero?

Che cosa è il condizionamento, se non l’utilizzo della paura per privare altri della libertà di scegliere, di rischiare? della libertà di conoscere autonomamente, in primo luogo se stesso, i propri talenti, aspirazioni, sentimenti, bisogni?

E’ compatibile l’amore con il condizionamento?

E’ compatibile l’amore con la paura, con la privazione della libertà di conoscere e di conoscersi?

Se si riflette su tali domande, si comprende che l’amore condizionato è un’ossimoro, cioè una contraddizione in termini. Dove c’è condizionamento, dove c’è privazione o riduzione di libertà, non ci può essere amore. La parola corretta, il proper name, non è amore, ma possesso.

Eppure è attraverso questo tipo di non amore che molti genitori credono di educare i figli. E’ questa educazione? O non è piuttosto una forma di condizionamento diretto a stimolare paura, sottomissione e adattamento?

La famiglia è la cinghia di trasmissione della società. La società, qualsiasi società, pone dei limiti alla libertà di pensare, di credere, di formarsi libere opinioni. E in tal modo forgia le menti dei suoi appartenenti mediante l’interiorizzazione di schemi mentali, schemi percettivi, schemi di pensiero, che passano inosservati, in quanto condivisi da tutti. Diventano come l’aria che respiriamo.

Questi schemi sono come gabbie di una prigione di cui avvertiamo il peso, senza più riuscire a vederne le sbarre.

Secondo Krishnamurti, l’educazione, la vera educazione, dovrebbe svolgere una funzione del tutto diversa, direi opposta: rendere libere le persone dai condizionamenti sociali. Come? Imparando a vederli, a riconoscerli per quelli che sono: fardelli imposti alla nostra libertà di pensiero. Perduta la libertà di pensare, perdiamo anche la capacità di amare. E qui inizia la sofferenza, in quanto siamo fatti per amare. Amare è una funzione che ci accomuna, come camminare, mangiare o dormire.

Essere educati alla società comporta quindi un prezzo spesso molto elevato.

Freud aveva intuito questa verità (v. Il disagio della civiltà).  Ma solo parzialmente, in quanto aveva considerato questo disagio necessario e inevitabile.

Krishnamurti concorda con Freud su un punto: finché non ci risvegliamo dall’ipnosi del condizionamento, viviamo in una sorta di prigione. I nostri tentativi di ribellione sono solo diretti a spostarci da una parte all’altra della stessa prigione. Ma Krishnamurti non ritiene questa condizione insuperabile. Al contrario, ritiene che il suo superamento sia l’essenza stessa dell’educazione, quella vera, non quella diretta ad ammaestrarci e a sottometterci. Su questo punto la distanza tra Krishnamurti e Freud non potrebbe essere più grande.

Quando riceviamo amore condizionato, impariamo ad amarci in modo condizionato: posso volermi bene, posso stimarmi, apprezzarmi, SOLO SE SODDISFO CERTE CONDIZIONI (vedi file amore e giudizio):

essere gentile e affidabile
essere generoso
essere capace e competente
essere ineccepibile
essere prestante
essere forte

ecc.

Le condizioni di amabilità, o condizioni di valore, diventano condizioni di felicità. Non posso essere felice, non posso essere amato, non ho valore se… Una volta interiorizzato questo schema, la libertà cessa di esistere. E con essa la capacità di conoscere e amare sé e gli altri.

APPROFONDIMENTO

Chi in famiglia, anche solo da uno dei genitori, riceve amore condizionato, impara a non amarsi o ad amarsi solo se soddisfa certe condizioni (non commettere errori, non creare fastidi, primeggiare, ecc.). Impara quindi a vivere in una situazione di stress o paura, che toglie la libertà e assorbe una parte più o meno grande di energia vitale, o energia creativa. 

E’ come un alpinista che si carica sulle spalle un sacco pieno di pietre. Anche un passaggio relativamente semplice diventa difficile o impossibile.

Come se non bastasse, l’alpinista si porta dietro anche un compagno che lo critica o lo insulta ogni volta che tentenna o rallenta. Questo compagno di cordata è il giudice interno, al quale l’alpinista si affida per valutare le sue performance!

Mettiamoci nei panni delle cellule, dei tessuti, degli organi interni di quest’uomo o donna. Come si sentiranno? Avranno fiducia nella politica di governo che le guida? Saranno disposti a collaborare, o cercheranno di cambiare la situazione, di far aprire gli occhi all’io-governo, in modo che cambi politica?

E se il governo continua ad essere sordo alle loro sane richieste, non accadrà che cellule, tessuti, organi, prima o poi inizino uno sciopero parziale o generale, o comincino a danneggiare le infrastrutture, o ad opporsi in modi più o meno violenti? E come risponderà il governo se è così ipnotizzato da non riuscire a vedere l’ovvio? Probabilmente chiamerà malattia, debolezza, handicap, quello che invece è espressione autentica delle forze più intelligenti e libere del suo paese.  

E se il governo continuerà così per tanti anni, quale destino lo attende?

Un governo di questo tipo, probabilmente, passerà buona parte del tempo a cercare di risolvere quelli che lui definisce problemi. Ma in che modo cerca di risolverli? Continuando a fare ancora di più quello che già stava facendo: mettendo ulteriori pietre nello zaino e continuando a dare ascolto alle critiche e ai giudizi del suo tribunale interiore, che si fanno sempre più pesanti.

E di fronte a questi crescenti restrizioni e inasprimenti fiscali, come reagirà la popolazione delle cellule, organi e tessuti?

Con le migliori intenzioni – risolvere i problemi –, l’io-governo ha innescato quello che i cibernetici e gli informatici chiamano loop: un LOOP DISTRUTTIVO. Un loop che giorno dopo giorno rende più profonda l’ipnosi nella quale è sprofondato.

Schematicamente, si danno diverse varianti dell’auto-condizionamento iniziale, che dà origine a tutto il processo (ho scritto “auto-condizionamento” perché la sua forma dipende da una scelta, da una decisione personale. Decisione che viene presa quando il bambino ha pochi anni di vita):

1.Sono amabile e posso essere felice solo finché continuo a soddisfare certe condizioni
2. Non sono amabile e non posso essere felice finché non riesco a soddisfare certe condizioni

3. Non sono amabile e non posso essere felice poiché non sarò mai in grado di soddisfare certe condizioni

L’alpinista ha il sacco leggero, senza pietre, solo se è libero da ogni forma di condizionamento. Solo allora dispone di tutta la sua forza e intelligenza.

Passando dal condizionamento 1 a quello 3, il sacco si fa sempre più pesante e la mente dell’alpinista più ottusa. E può diventare così pesante da convincere l’alpinista che non riuscirà mai ad arrivare in cima. L’unico modo per scendere dalla parete è quello di annullarsi, sparire.

Una delle pietre più pesanti che si possono mettere nel sacco è quella di credere che, per essere degni d’amore, bisogna continuare a soffrire. Infatti, posso credere che, se nella mia famiglia c’è tanto dolore, e io me ne libero e vivo bene, io sto abbandonando i miei famigliari, li lascio da soli nella loro sofferenza. E questo non posso farlo, sarebbe crudele, malvagio. Solo soffrendo anch’io dimostro il mio amore per loro. Soffro, quindi amo.

Una tale visione è spesso alla base del corpo di dolore di tante persone. Finché tale visione viene mantenuta, non c’è formazione o terapia che possa liberarle.

Gregory Bateson direbbe che tali persone sono imprigionate in un doppio legame, cioè sono esposte a due ingiunzioni contraddittorie. Se soddisfi una, violi l’altra. L’unica soluzione sarebbe abbandonare il campo. Ma non puoi farlo, pena la tua sopravvivenza.

In sintesi:

  • per essere felice devo amare i miei genitori, così sarò amato, sicuro, protetto
  • per amare i miei genitori, se soffrono, devo stare con loro e condividere la loro sofferenza, quindi per me amare = soffrire / star bene = non amare = soffrire

Come si esce da questo doppio legame? Comprendendo che nelle due ingiunzioni si mischiano due differenti livelli: anima ed Ego, grande mente e piccola mente.

L’ingiunzione di amare viene dall’anima, di genitori e figli. L’ingiunzione di soffrire viene dal loro Ego o piccola mente.

Nella distorta visione dell’Ego, la sofferenza è una prova d’amore: soffri per me, così saprò che mi ami; io soffro per te, perché ti amo. Ma questo NON è amore, è possesso.

L’anima, di fronte alla sofferenza del proprio Ego o dell’Ego degli altri, prova compassione, non sofferenza. E la compassione può nascere solo se si coglie la realtà nel suo insieme, cioè se si è nella grande mente.

La piccola mente si concentra su un aspetto per volta: la sua è una visione a tunnel, che impedisce di vedere l’insieme.

Nella piccola mente non c’è soluzione al dolore: può solo crescere e indurirsi. Nella grande mente c’è spazio per tutto, anche per il dolore, che nel grande spazio trova il suo posto naturale, come un cavallo imbizzarrito in una grande prateria. La prateria rimane tranquilla, e il cavallo dopo un po’ si mette a brucare.

CONVERSAZIONE SUL TEMA

Perché è così difficile liberarsi dalle pietre? Una volta che si sono viste, perché non le si butta?

Perché quelle pietre le abbiamo messe nel sacco quando eravamo piccoli, credendo che ci salvassero la vita. Buttarle, a livello inconscio, significherebbe morire o rimanere soli e abbandonati.

Ma adesso sappiamo che non è così!

Lo sa la nostra parte adulta, non il bambino che vive ancora dentro di noi. Per convincere quel bambino a mollare le pietre, occorre dargli adesso ciò di cui lui ha sempre avuto bisogno.

Che cosa?

Amore incondizionato.

E come possiamo dare questo amore?

Non dando più credito a ciò che dice il giudice interno, che è un elemento portante della struttura del condizionamento. Chi continua ad ascoltarlo, dimostra al bambino interiore che anche da adulto è ancora condizionato, spaventato, confuso.

Un adulto così non è minimamente affidabile. Non può fungere da guida al bambino.

Quindi è l’adulto, è l’io-governo che deve cambiare per primo?

Si.

Come?

Ponendo fine al racket che tiene in piedi tutta la struttura. Racket significa rifiuto di assumere la responsabilità, scaricandola su altri. Per altri intendo non solo altre persone, ma anche altre parti di sé, le proprie sensazioni, il proprio carattere. Lamentele, pretese, accuse, sono le più comuni manifestazioni di racket. Sono forme di mistificazione che servono a giustificare la politica disfunzionale del governo.

Stai dicendo che il racket è assai diffuso?

Occupa tutti gli spazi disponibili. E coloro che lo praticano, anche se in conflitto su tutto, sono d’accordo almeno su una cosa: sul non confrontarsi, sul non aprire gli occhi sulla loro mancanza di responsabilità.

Solo una persona libera da condizionamenti è privo di paura, e può parlare liberamente. Tutti gli altri temono le ritorsioni, che puntualmente arriveranno ogni volta che utilizzano parole vere.

In un mondo dove domina l’ombra, la manipolazione, la falsità, chi si dedica alla verità diventa un nemico da cui difendersi.

Sono affermazioni un po’ pesanti!

La cronaca politica fornisce ogni giorno prove convincenti sulla loro correttezza. E non parlo solo della politica nazionale o internazionale; parlo della politica delle famiglie e dei gruppi, compresi quelli che si ispirano alla c.d. cultura benevola. All’interno di questi gruppi, se si ha occhi per vedere al di sotto della superficie, si assiste a continue lotte di potere, non diverse nella struttura da quelle tanto criticate della politica nazionale.

E ancora prima, mi riferisco alla politica personale, o politica interna alla mente individuale. L’ombra, scoperta da Freud e da Jung, è la prova definitiva, scientificamente attendibile, che frammentazione, lotta di potere, giudizio, colpa, punizione, abitano al nostro interno. Buona parte delle nostre energie le impieghiamo per negare questi aspetti, proiettandoli sugli altri e sul mondo esterno.

In questo modo non ce ne libereremo mai?

Ciò che neghiamo in noi stessi ci viene continuamente riflesso dalla realtà. La realtà ci fa da specchio. Se solo usciamo dall’ipnosi, se solo vediamo non una di queste cose, separata dalle altre, ma impariamo a vederle tutte insieme, – la politica interiore, la politica familiare, quella dei gruppi e delle nazioni –, allora ciò che vediamo ci avvicina alla verità. E se vediamo ciò che è vero, la paura sparisce.

Perché?

Perché comprendiamo che è frutto di una colossale illusione, alla quale tutti partecipiamo e attivamente sosteniamo, condividendo la stessa danza, gli stessi virus del pensiero, gli stessi racket.

Allora ci rendiamo conto che non esiste qualcosa come la “mia” paura, la “mia” rabbia, il “mio” dolore, il “mio” carattere, la “mia” ombra, la “mia” disonestà, la “mia” debolezza. Esistono solo la paura, la rabbia, la sofferenza. Ogni volta che utilizziamo l’aggettivo possessivo, stiamo implicitamente confermando e rafforzando l’illusione di separatività, che è all’origine di ogni sofferenza.

Così come esistono i virus informatici, che possono mettere in crisi un computer, così esistono i virus del pensiero. Non siamo noi a produrli. Vengono da fuori. Noi li lasciamo solo entrare.

Ciò di cui abbiamo bisogno non è buttare il computer, ma liberarlo e proteggerlo dai virus.

Le origini del Koan

«Se intraprendete lo studio di un kōan e vi ci dedicate senza interrompervi, scompariranno i vostri pensieri e svaniranno i bisogni dell’io. Un abisso privo di fondo vi si aprirà davanti e nessun appiglio sarà a portata della vostra mano e su nessun appoggio si potrà posare il vostro piede. La morte vi è di fronte mentre il vostro cuore è incendiato. Allora, improvvisamente sarete una sola cosa con il kōan e il corpo-mente si separerà. … Ciò è vedere la propria natura.»
(Hakuin, Orategama 遠羅天釜)

Kōan è la pronuncia giapponese dei caratteri cinesi 公案 (pinyin gōng’àn, Wade-Giles kung-an; in coreano 공안 gong-an o kong’an, in vietnamita công án). Il Kōan è un termine proprio del Buddhismo Zen e, nei suoi corrispettivi linguistici, della scuola cinese da cui è derivato, il Buddhismo Chán, e delle rispettive scuole coreane (dette Seon o Sŏn soprattutto nella scuola Jogye jong) e vietnamite (dette Thiền) anch’esse derivate dal Buddhismo Chán. Questo termine indica lo strumento di una pratica meditativa, denominata 看話禪 (cin. kànhuà chán, giapp. kanna zen[1]) propria di queste scuole, consistente in una affermazione paradossale o in un racconto usato per aiutare la meditazione e quindi “risvegliare” una profonda consapevolezza. Di solito narra l’incontro tra un maestro e il suo discepolo nel quale viene rivelata la natura ultima della realtà.

(tratto da Wikipedia – pubblicato da Abheeru R. Berruti )

Malattia amica mia

MALATTIA, AMICA MIA!

Saper accogliere le manifestazioni che accadono nel nostro corpo può aiutarci a migliorare la qualità della nostra vita.

Viviamo oggigiorno un accrescersi continuo di disturbi fisici: un aumento delle allergie, nuovi virus e un incremento costante delle malattie degenerative.

Per affrontare e curare questa marea di disturbi ci sono a disposizione farmacie fornite di ogni tipo di prodotto immaginabile, un progressivo divulgarsi di terapie e rimedi alternativi e complementari a quelli medici; così come abbiamo accesso a fonti di informazione eccezionali come riviste, manuali e internet.

Curiosamente però, anche se possiamo attingere a questa abbondanza di strumenti e informazioni, spesso assistiamo a manifestazioni fisiche che sembrano immuni da qualunque tentativo di cura: ci sono malattie che vengono definite incurabili (tumori, morbi del sistema nervoso/motorio) e tante altre che sono definite gestibili (diabeti, allergie, eczemi/psoriasi ecc….), ma che nonostante vari e differenziati approcci sembrano non voler cedere il loro territorio, presentandosi ripetutamente nel tempo. Nella mia personale esperienza con una malattia degenerativa (linfoma di Hodgkin) ho vissuto più volte questo ritorno della malattia e per quattro anni ho lottato, così come viene suggerito, contro il cancro: ho cercato di allontanare il male in tutti i modi, seguendo i protocolli medici, provando vari prodotti naturali ed affidandomi alle terapie intensive.

Messo di fronte alla realtà che nessuna terapia sembrava funzionare, ho compreso che quello sforzo enorme di allontanare il presunto nemico non solo non dava risultati, ma neppure mi metteva di buon umore: al contrario, amplificava un malessere che mi portavo dietro da anni e che aveva a che fare col modo in cui vivevo la mia vita.

Ho cominciato così per la prima volta a considerare la possibilità che quella malattia volesse tornare perché aveva un compito da svolgere, come se fosse un messaggero che portava qualcosa da comunicarmi.

Da quel giorno, imparando a conoscere e ad ascoltare quel messaggero, la mia vita è cambiata in meglio, progressivamente, sotto tutti gli aspetti: relazionale, professionale, spirituale e materiale.

Vedo di spiegare quanto ho sperimentato: riguardo il nostro corpo e il suo funzionamento, abbiamo ricevuto un’educazione prevalentemente di tipo meccanico/scientifica; sappiamo a cosa sono preposti gli organi e dove sono localizzati, sappiamo che nel corpo avvengono molte attività e viviamo spesso l’esperienza di come alcune di queste funzioni subiscano un indebolimento, temporaneamente o in modo cronico, con conseguenti disturbi che vengono etichettati con vari nomi e col comune denominatore di essere delle malattie. Seguendo questo insegnamento abbiamo imparato ad occuparci dei sintomi che appaiono nel corpo come se fossero dei corpi estranei, degli ospiti sbagliati e indesiderati che conseguentemente vanno soppressi: per esempio, se appare una tosse significa che c’è un problema nei polmoni e mi faccio visitare; in base alla diagnosi prendo un farmaco che eliminerà il sintomo; guarisco e riprendo la mia vita come se nulla fosse accaduto.

In questo esempio la relazione tra la persona che va dal medico e il suo corpo che manifesta la tosse è una non relazione…. di non comunicazione…: la persona, seguendo automaticamente l’imprinting (dato dalla suddetta educazione) che un sintomo sia una conseguenza meccanica di qualche mal funzionamento, pensa solo ad aggiustare il danno come se esso si stesse verificando nella propria automobile, o in un elettrodomestico; cioè come se il corpo fosse un elemento estraneo alla persona stessa.

Questa realtà è piuttosto comune, purtroppo: ci si ricorda del corpo solo quando esso manifesta un disagio e allora, spinti dalla paura, corriamo a cercare un buon meccanico che ce lo ripari, e in fretta.

I nuovi insegnamenti che ci giungono dalla fisica quantistica dimostrano come l’intelligenza non sia un bene di esclusiva proprietà del cervello umano, bensì di come sia presente in tutte le forme viventi e, più nel dettaglio, in ogni singola cellula. Significa che il nostro corpo è composto da miliardi di esserini intelligenti, in grado di rispondere e adattarsi a tutto quanto captano e ricevono dal padrone di casa, cioè dalla persona che nel corpo ci vive.

In altre parole esiste una strettissima relazione intelligente tra la persona e il suo corpo.

Se consideriamo per esempio un veicolo, questo funziona in base a ciò che farà il conducente: senza conducente il veicolo non funzionerà. Analogamente, la persona può essere vista come il pilota ed il corpo come il veicolo: in riferimento a quanto detto sulla relazione intelligente, il corpo percepisce ogni singolo input che gli arriva dalla persona, sia esso un pensiero, un sentimento, un’emozione, un’azione; non solo, il corpo percepisce anche la qualità di quell’input (ad esempio un pensiero può essere positivo o negativo, così come un’emozione digeribile o meno).

Quindi, se i miliardi di cellule intelligenti del corpo ricevono costantemente dal pilota stimolazioni felici, si plasmeranno di conseguenza e saranno anch’esse felici e forti; ma cosa succede se le stimolazioni inviate dal pilota sono basate su pressioni, senso del dovere, sfiducia o svalutazione di sé, scarso piacere, vecchi rancori e poco divertimento?

Il corpo non ha scelta, si adatterà a quelle stimolazioni: il corpo non è programmato per indebolirsi o autodistruggersi, ma se la persona che lo guida non sa trattarsi bene, non sa amarsi, e ripetutamente lotta contro se stessa, anche il corpo nel tempo comincerà a lottare contro se stesso, arrivando addirittura ad auto degenerarsi attraverso manifestazioni tumorali.

Come successo a me nel passato, alcune persone non sono consapevoli delle proprie azioni: non sanno cosa gli piace fare, cosa non vogliono fare, con quale qualità vivere; il loro corpo si ammalerà con più frequenza.

In questo senso allora ogni sintomo può essere visto come una possibilità di comprensione che qualcosa nel pilota, e solo conseguentemente nel corpo, non sta funzionando correttamente: ogni sintomo può essere quindi letto come un messaggero che ci indica come il pilota non si stia percependo e non stia guidando seguendo le proprie reali necessità esistenziali.

La chiave di volta in questa comprensione sta nel percepire questa relazione tra noi e il nostro corpo, nel conoscere il pilota ed il corpo: curiosamente, l’unico modo di farlo è proprio quello di utilizzare il corpo, con una nuova attenzione; ascoltandolo consapevolmente.

Anche se non rientrava nell’educazione scolastica, è un qualcosa che tutti noi sappiamo naturalmente fare: con l’intelligenza possiamo guidare i sensi nella percezione del nostro corpo e quindi di noi stessi; possiamo allenarci a sentire come stiamo e se quello che stiamo facendo nella vita risuona con noi (e con il corpo).

Allenati a questa percezione di noi non avremo più paura del sintomo (la paura è frutto dell’ignoranza, in questo caso dell’ignorare cos’è veramente un sintomo): al contrario, lo sapremo accogliere.

Potremo percepire che la malattia è qualcosa di vivo che accade dentro di noi: una parte di noi che vuole manifestarsi ed evolversi.

Potremo così comprendere che se quella malattia ritorna con insistenza è solo perchè porta con sé una forte intenzione di evoluzione, e non perchè è contro di noi: e che quindi ce ne possiamo occupare senza provare a sopprimerla.

Nella malattia possiamo trovare preziose indicazioni sulla nostra vita: la malattia ….. amica mia!

Abheeru Roberto Berruti

Testo dell’articolo

La Vision di Abheeru sulla Dipendenza

LA MIA VISION SULLA DIPENDENZA

1. Perché decidere di affrontare le forme di dipendenza.
L’esercizio di sciogliere le forme di dipendenza nelle quali accade di trovarsi compulsivamente implosi è un’opera di evoluzione che viene chiesta a ognuno di noi dal malessere che le stesse dipendenze ci causano. Stare male non significa dover continuare a stare male: il malessere della dipendenza, così come ogni altro malessere che ci accade, non è altro che l’urlo dell’anima che richiede la nostra attenzione: ci chiede di fermarci e di ritrovare la strada del ben-essere.

Nessuno escluso, arriva a un certo punto della vita un passaggio nel quale devi affrontare, elaborare e sciogliere almeno una forma di dipendenza.
Perché affermo che nessuno è escluso? Perché la dipendenza è un corto circuito mentale figlio dell’Ego, o Falsa Personalità; fino a che non prendiamo coscienza di vivere comandati da un Ego spaventato, difensivo/aggressivo e orgoglioso, siamo costretti a subire passivamente qualche forma di dipendenza.  

È d’uopo a questo riguardo considerare l’inizio curioso e paradossale di questa di vita: arriviamo su questo pianeta come creature totalmente libere nella propria espressione e manifestazione: pienamente interconnesse al tutto sul piano sensoriale e relazionale, in un pieno senso di appartenenza; creature liberamente inter-dipendenti.
Al tempo stesso in quell’inizio siamo totalmente dipendenti per la nostra sopravvivenza e incolumità.

Siccome per i codici dell’esistenza la cosa prioritaria è di farti passare incolume la fase in cui non sai e non puoi curarti di te da solo, all’inizio della nostra vita i cervelli preposti a tutelare sopravvivenza e territorialità materiale e psichico/nervosa (Rettile e Limbico) sono potentemente attivi a pieno regime; mentre la neo corteccia frontale, il cervello preposto (tra le sue varie funzioni) al rifletterci la nostra identità, è appena abbozzato e comincia a svilupparsi dopo la nascita, nell’interazione con le figure di attaccamento e con l’ambiente in cui cresciamo.

Lo sviluppo della neo corteccia frontale viene quindi potentemente condizionato dalle conseguenze dell’attività di sopravvivenza e adattamento dei due cervelli protettivi: quando i cervelli protettivi intervengono per proteggere da un reale o presunto pericolo (ricordiamo che per un neonato un semplice calo di energie, che lo porta nella fase nervosa ortosimpatica, appare come una pericolosa caduta nel vuoto), l’attività di ramificazione neuronale della neocorteccia rispetto alla situazione vissuta entra in pausa; riprende a ramificare solo dopo l’elaborazione limbica.

Ogni volta che questo accade è il cervello Limbico a fornire l’input di elaborazione ai due emisferi della neocorteccia: l’input che fornisce riguarda come l’ambiente esterno, a cui il neonato è vincolato, ha risposto o reagito all’urgenza del bambino.

Facciamo un esempio.

Se l’ambiente esterno ha risposto in modo rassicurante, il Limbico dà l’ok alla situazione e smette di suonare l’allarme nel sistema nervoso; manda alla neocorteccia un input di situazione accettabile, sul quale la neocorteccia del bambino può riprendere a ramificare le sue conclusioni accettabili sull’accaduto.

Se invece l’ambiente esterno non ha risposto in modo rassicurante, ma reattivo o aggressivo/punitivo, il Limbico rimuove dalla coscienza la memoria sgradevole della situazione vissuta e rimane l’allarme nel sistema nervoso: in questo caso l’input inviato alla neocorteccia è di minaccia/pericolo, associata all’emotività reattiva con cui l’esterno ha reagito e abbinata al senso di impotenza del piccolo; la neocorteccia può così solo fissare una conclusione non accettabile sull’accaduto.

Ciò che vale per entrambi i casi esposti come esempio, è che la ramificazione della neocorteccia sull’esito dell’evento pericoloso diventerà un tassello della propria identità.

Accade così che in ogni essere umano si costituisca una prima identità di Sé fondata prevalentemente su informazioni dettate dai cervelli di sopravvivenza: loro hanno gestito la relazione con l’ambiente esterno; loro hanno valutato quanto esso fosse sicuro o meno; loro hanno confuso l’amore con le condizioni; loro hanno registrato traumi e mancanze e li hanno coperti con strategie di alienazione; e infine sempre loro hanno accentrato ogni evento sulla piccola creatura: “Se è accaduto qualcosa che mi fa male è per colpa mia, o perché c’è qualcosa di sbagliato in me”.

I cervelli di sopravvivenza costringono la neocorteccia a creare nella nostra immaginazione un’identità non scelta, ma dettata dalla sopravvivenza e dalle reazioni delle figure di attaccamento/accudimento; una Falsa Personalità, l’Ego appunto.
Un’identità che per buona parte è fondata sulla timorosa gestione della propria sicurezza e sopravvivenza diventa un’identità perennemente chiusa e separata dalla pienezza della vita, fino a diventare alienata.

Un’identità che non ricorda neppure il senso originario di appartenenza: non ha idea di chi veramente è; non ricorda di far parte del tutto; il suo convincersi di essere reale dipende obbligatoriamente da elementi esterni; esiste solo nel ricordo di altri che ne hanno diretto le valutazioni, le regole comportamentali e il senso di giusto o sbagliato; non si occupa di tornare alla dimensione naturale della interdipendenza.
Un’identità che si origina dalla paura di riprovare dolori e traumi è vincolata, a ogni suo pensarsi o agirsi, a ripetere gli effetti di dolore da cui si origina.
E non potrà comunque proteggerti da una cosa: dal non sentire il lamentio dell’anima che reclama in Te la sua origine di relazione col tutto.

Quindi, fino a che siamo completamente identificati con la nostra falsa immagine/personalità, siamo costretti a vivere in una condizione di dipendenza: guidati da un’idea di noi stessi che non abbiamo confezionato liberamente; un’idea che, dalla sua origine, si fonda su come è andata la obbligata interazione con gli altri nella prima infanzia, e non su di noi!

In conclusione: prendere coscienza che c’è realmente in noi qualche forma comportamentale a sfondo compulsivo, che ci spinge a ripetere azioni contrarie alla nostra integrità e benessere, rappresenta l’inizio del ritrovare il vero se stesso, e quindi l’inizio di una nuova e più felice possibilità di vita; oltre che la fine di una vita adattata a qualcosa di fissamente disfunzionale.

Decidere di affrontare la problematica da dipendenza che ti affligge significa darti finalmente la Tua risposta esistenziale, una risposta di consenso a Te stesso; vuol dire imparare a vivere libero, senza più l’ombra costante di pensieri che ti confermano l’esistenza solo in relazione agli altri, alla paura, a una qualche mancanza o a un presunto prossimo pericolo.


2. Il problema della dipendenza riguarda tutti.
Con la parola dipendenza definiamo il ripetere fissamente e compulsivamente pensieri, attitudini e azioni, di cui siamo consapevoli e che sembrano prometterci un immediato sollievo, e che in verità replicano un danno che già conosciamo e che puntualmente fingiamo di ignorare.”

Ricordando quanto espresso nella parte 1., riguardo alla personalità e al suo esistere come struttura dipendente a priori, possiamo affermare che problema della dipendenza è presente in qualche forma nel cervello e nei comportamenti di ogni essere umano. In un vasto range di manifestazioni: a partire da forme di dipendenza accettabili, che sfogano in quelle che consideriamo come abitudini malsane, da concedersi una volta ogni tanto, e sulle quali riusciamo a esercitare un qualche controllo; per finire in forme altamente auto lesive che, come sappiamo, possono condurre all’auto distruzione.

Siamo principalmente orientati a identificare la dipendenza solo nelle sue manifestazioni più estreme e visibilmente tossiche e distruttive, in cui l’oggetto da cui si dipende è una sostanza stupefacente, o l’alcool, e conseguentemente a ghettizzarle: “Loro sono tossico – dipendenti, io no!”
La cruda verità è che tutti in qualche modo manifestiamo attitudini e comportamenti da dipendenti: ogni forma di personalità è una struttura di dipendenza; la personalità è tossica, così come ogni forma di dipendenza è tossica a priori: lo è perché è distruttiva per l’integrità di chi la ripete, oltre che per la salute psichica e fisica.

Ciò che ci fa credere di non essere tossici è che solo le dipendenze da stupefacenti e alcool vengono considerate socialmente inaccettabili, mentre la maggior parte delle forme di dipendenza come quella da tabacco, da iper lavoro, dal denaro, dal sesso, dal cibo, dagli smartphone, dalle relazioni affettive, dal gioco d’azzardo, dai farmaci ecc… sono ritenute socialmente accettabili.

Non solo: molti dei prodotti preferiti dai compulsivo-dipendenti sono sponsorizzati dagli Stati che ci governano.
La piaga della dipendenza è un male sociale collettivo.

Il fare, il consumare, il comprare compulsivamente, il diventare amanti di uno smartphone e rimanere relazionalmente isolati sono reazioni da traumi da alienazione: purtroppo per gran parte della società sono diventate la condizione di vita acquisita come normale.

Ci siamo abituati a comunicare da dipendenti, sulle fondamenta della menzogna, del senso di colpa e del tradimento; pensiamo di scambiare nelle relazioni sociali mentre invece stiamo vendendo una buona e accettabile giustificazione al nostro segreto dipendere da qualcosa.

La buona notizia è che, così come la dipendenza riguarda tutti, anche il ritorno a uno stato di integrità e verità personale riguarda tutti.
L’altra buona notizia, che ci viene data dall’inizio di questa vita come un bonus vissuto, è che nasciamo integri e liberi di scegliere su quale fronte dirigerci: e che  possiamo riprenderci il bonus.

3. Come si creano le forme di dipendenza?
Ogni forma di dipendenza è il risultato dell’elaborazione fatta dal cervello limbico di un qualche trauma vissuto (con alte probabilità nella prima fase di infanzia):

con la parola trauma intendiamo l’intensità di come ci separiamo dalla percezione unitaria della nostra persona; separazione che accade nei momenti in cui subiamo un qualche evento che riteniamo pericoloso, interno o esterno a noi, senza riuscire a darci una risposta calmante e appagante.

 Quando veniamo colpiti da eventi intollerabili e ingiustificabili, per tutelare psiche, sistema nervoso e intelligenza sensibile la miglior strategia inconscia che il cervello Limbico può produrre è quella dell’alienazione.
Nei momenti in cui una creatura umana viene ferita interiormente, il compito nr. 1 del Limbico è: allontanare dalla coscienza l’impatto dell’evento negativo.
L’alienazione è una strategia che prevede una perdita di contatto dalla realtà vissuta: per poterlo fare siamo costretti a perdere contatto anche dalla percezione unitaria di noi stessi e dal proprio sentire di quel momento; dalla percezione fisica del corpo; e anche dal ricordo stesso di quanto accaduto.
Il trauma è nell’alienazione, non nell’evento che ci impatta: è appunto quel doloroso distacco dalla propria intelligenza sensibile e dall’integrità di individuo (dal latino individuus = indivisibile).
Nella dimensione alienata ho sempre la percezione di me come un individuo solo e separato dal resto; unicamente impegnato nella difesa o nel rifiuto di me stesso e del mondo esterno (per esempio con il giudicare, l’accusare, il lamentare, il mendicare o il negare).
La perdita di contatto viene compensata dal cervello limbico allucinando una soluzione falsamente positiva su quanto accaduto: come un film nel quale si inventa come giustificare e colmare quel vuoto intollerabile dovuto all’alienazione. Questa allucinazione è vincolata all’impatto negativo che la ha generata, che è un fattore proveniente dalla relazione con l’esterno; per cui la compensazione, per quanto ben artefatta, è legata fissamente a un qualche elemento esterno; solitamente l’ambiente che ci cresce e le figure di attaccamento e accudimento.
Il risultato di fondo di questo allucinare è: “Io esisto solo in funzione di qualcosa là fuori.”
Dal momento in cui è attuata e registrata, la strategia di alienazione verrà automaticamente replicata dal cervello limbico, ogni volta che riterrà che le situazioni di vita assomiglino al trauma vissuto: questa lettura distorta della realtà, come purtroppo sappiamo, può diventare cronica e di routine quotidiana.
Non potendo ovviamente la strategia di alienazione portare un reale benessere, rimane imploso e vivo nella sua ombra il desiderio di riarmonizzare quello stato separato e di ritrovare il ben-essere: sarà però di nuovo la stessa strategia a tradurre quel desiderio, interpretandolo sempre nella forma di un qualcosa di esterno a noi, come una sostanza, un oggetto, una persona o una situazione.
Si impara così a seguire la chimera che l’ottenimento di quell’oggetto esterno ci darà l’appagamento desiderato.
Vivendo l’esperienza che, a oggetto ottenuto e consumato, l’appagamento non si è realizzato, il  circuito cerebrale della strategia ripropone incessantemente il desiderio insoddisfatto.
Questa spinta a desiderare continuamente l’oggetto esterno, quasi come fosse l’unico salvagente disponibile nell’oceano, è l’ossessione che crea e governa ogni forma di dipendenza.

  1. Opening the Seed: ogni forma di dipendenza è tossica.
    Perché ogni forma di dipendenza, anche se non considerata tossica, produce effetti tossici per la salute e per la psiche e distruttivi per la persona?
    La ripetizione del pattern di alienazione di cui abbiamo precedentemente parlato, atteggiamenti compulsivi inclusi, è una sorta di certificazione di voler vivere in uno stato alienato e separato,
    che inviamo ininterrottamente al cervello e al corpo.
    Quando al comando del nostro agire c’è il cervello limbico, non hai discernimento: senza discernimento il cervello disimpara su come attivare l’intenzione, la motivazione e la volontà e si abitua a una dimensione innaturale di terrore rispetto al prendere decisioni. Ci si ritrova così a immaginare decisioni e soluzioni, ma non si riesce più a viverle veramente.
    Ogni forma di compensazione limbica esiste in una memoria di impossibilità, quindi in quella modalità reattiva non hai realmente la forza per fare quello che senti sano fare.
    In opposizione a questa condizione di fobia e impotenza del decidere, il sentire profondo dell’Intelligenza Sensibile che reclama il ben-essere non si estingue mai: si crea così una guerra interiore tra quello che senti di poter fare per uscire dal vincolo della compensazione limbica, e quindi dalla dipendenza, e quello che l’allucinazione limbica ti propone rigidamente di ripetere.
    Nella guerra interiore si è spezzati in due: separati dalla propria Intelligenza Sensibile si è condannati a soffrire.
    Lascio immaginare quali effetti tossici produca questo stato separato, sia nella relazione con se stessi che nelle relazioni con l’esterno. Riguardo gli effetti interni, consideriamo la psiche, il sistema nervoso e il corpo. Rispetto al corpo e al sistema nervoso, ci è necessario ricordare l’alto coefficiente di adattabilità agli stimoli ricevuti che lo caratterizza: il corpo può adattarsi quasi a tutto. Se per anni replico e alimento nel cervello un pattern di separazione, allora la materia del corpo si adeguerà a una condizione di anestesia rispetto al sentire e a un certo punto genererà separazione. Sì, il corpo può procedere nell’adattarsi all’alienazione fino al punto di andare contro la legge di unità e relazione che lo governa: può dividersi e andare contro natura.
    Le grandi malattie di questa epoca, come il cancro, l’Hiv, le malattie autoimmuni e degenerative, il Parkinson, l’Alzheimer, la bulimia o l’anoressia e altre ancora, sono patologie da scissione che ci mostrano come nell’organismo di una persona le cellule, originariamente programmate per un lavoro di cooperazione, si schierino come due eserciti nemici in guerra.
    Questo spiega perché la scienza medica non riesca a trovare soluzioni definitive per risolvere questo tipo di patologie fisiche.
    Rispetto alla psiche: nell’allucinazione di separazione il mostro alienato e ossessivo di compensazioni diventa paradossalmente il personaggio forte e sempre presente, quello con cui ci identifichiamo e che inconsciamente valorizziamo come se fosse la nostra vera identità; mentre l’unità originaria e integra della persona e del suo corpo diventano il personaggio da negare o addirittura da eliminare.
    Certo, non tutti i casi dipendenza, per quanto estremi, portano necessariamente a patologie corporee da scissione: lo stato separato ammala comunque la mente, la psiche e il sistema nervoso e impedisce il buon vivere. Il cervello è un laboratorio chimico che per funzionare nel discernimento deve avere un suo equilibrio ormonale: se per anni vivo in una con–fusione mentale/emozionale in cui esistono due mondi separati, educherò il cervello a eccessi di una qualche tipologia di ormoni e a deficienze di qualche altra tipologia ormonale.
    Se credo che non potrò mai rilassarmi nella mia dimensione di individuo, produrrò costantemente eccessi di adrenalina (l’ormone dell’emergenza “Fuggi, attacca, paralizzati: SALVATI!”); non produrrò sufficienti endorfine (l’ormone de “La vita è possibile! Fai parte della vita! Sentilo con piacere!”); non proverò piacere a esistere enon potrò mai rilassarmi in generale.
    Nella scarsità di endorfine non sarò nemmeno un buon produttore di dopamina (l’ormone “Posso partecipare, posso fare”) e avrò sempre difficoltà a intraprendere decisioni e azioni e a concludere le cose; non mi sentirò mai di appartenere a questa vita, perché nella scarsità dopaminica non produco sufficiente ossitocina (l’ormone del sorriso e della gioia, “Esistere è bellissimo!”) e sperimenterò grandi difficoltà a vivere e ad affermarmi serenamente.
    In questo set up cerebrale divento intossicato dalla divisione che io stesso alimento: quell’dea di me, con cui mi rispecchio ogni giorno, si confermerà distruttiva; il sistema immunitario verrà progressivamente indebolito; il senso di me demolito.


  2. Opening the Seed: l’Interdipendenza.
    L’interdipendenza, essendo ormai un argomento scientificamente provato dalla fisica quantistica come fondamento del Creato, dovrebbe essere la prima materia insegnata a scuola: spiegata, compresa e applicata con azioni che favoriscono risultati creativi, figli della co-creazione data in dote a ogni essere umano e a cui ognuno di noi è chiamato a partecipare.
    “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza….” non significa che dovremo essere padri del mondo con la barba bianca e l’abito bianco: significa semplicemente che siamo l’unica creatura esistente su questo pianeta con la dote della co-creazione; grazie al potere del pensiero e con azioni coerenti al pensiero siamo in grado di modificare la realtà, di co-creare.
    Se osserviamo la natura come esempio principe di interdipendenza, assistiamo a un mutuo accordo universale di partecipazione da parte di tutti i singoli elementi: vi troviamo creature ed esserini preposti a creare, così come loro simili preposti a distruggere, e altri ancora a trasformare.
    Pur facendo l’uomo parte dello stesso sistema che include il mondo animale e vegetale, a differenza di un albero o di un lombrico (che sono programmati per fare solo l’albero e il lombrico) egli deve ricordare di essere un organismo interdipendente; che vive in un corpo fatto di miliardi di cellule intelligenti interdipendenti; soprattutto l’uomo deve accettare e scegliere di far parte di questo tessuto intelligente interdipendente che costituisce l’universo.
    Il problema rispetto all’istruzione pubblica (e conseguentemente all’istruzione sulla tematica della dipendenza) è che il fondamento dell’interdipendenza non è socialmente ammissibile.
    Il fondamento stesso dell’interdipendenza non prevede i paradigmi di giusto e sbagliato, di colpa e innocenza, di premio e punizione, di manipolazioni di potere, di individualismo estremo; che purtroppo sono i paradigmi sui quali è invece fondata la società in cui viviamo!
    Se, seguendo appunto l’esempio di interdipendenza che ci offre la natura, partiamo dal presupposto che non ci sono esseri umani giusti ed esseri umani sbagliati, ma solo diversi, allora occorrerebbe rivoluzionare l’educazione parentale, così come il sistema educativo scolastico: questo, paradossalmente impostato su dogmi di arrivismo, competizione e selezione, tende ancora a ghettizzare i ragazzi che non si adattano a un ambiente contrario alla loro stessa natura, con conseguenze assolutamente traumatiche.
    Così come la scuola, anche le strutture ospedaliere e di cura della salute sono diventate realtà contrarie alla interdipendenza: se hai un problema respiratorio c’è il pneumologo; il quale, per formazione certificata, non deve occuparsi del tuo intestino perché lui sa dei polmoni; non importa se, come da millenni ben spiegato dall’ayurveda o dalla medicina cinese, intestino e polmone siano costituiti dallo stesso tessuto cellulare e siano in piena sinergia l’uno con l’altro.
    Un approccio di recupero efficace alle tossico dipendenze fondato sul paradigma dell’interdipendenza non si focalizza sulla sostanza tossica come il nemico pubblico nr. 1 da sconfiggere: si focalizza olisticamente sulla relazione interna nell’individuo tra aspetti psichici, fisici, relazionali, comportamentali e stati interiori.
    L’approccio interdipendente non condanna l’uso della sostanza ma si occupa dei comportamenti di partecipazione alla sostanza, quelli attivati prima di arrivare a usarla. La sostanza è solo l’ultimo anello di una catena di reazioni interiori: non si guarisce sezionando, imponendo o pensando che sia sufficiente togliere la sostanza, ma smontando il tessuto interiore e cerebrale di reazioni che ne governa l’uso compulsivo e ricollocando i pezzi nel giusto ordine.
  • Opening the Seed: perché non si educa riguardo alla dipendenza?
    Dal mio personalissimo punto di vista la società dovrebbe istruire pubblicamente tutti i bambini sui fondamenti della relazione. Non solo: trovo assolutamente ridicolo e inutile continuare negli istituti pubblici a parlare di dipendenza solo in riferimento alle sue manifestazioni visibilmente tossiche, come stupefacenti e alcool, fondando la presunta educazione sui paradigmi del giusto/sbagliato, del premio/punizione e del ghettizzare. “Cari studenti, non è importante se vostro padre è tossico dipendente dal lavoro e dal tabacco e si è dimenticato di voi; non è importante se vostra madre è tossica dipendente dal giudizio pubblico e vi ha inamidato come manichini; non è importante quale effetto di alienazione si sia prodotto in voi. Ma mi raccomando: non provate mai a farvi una canna! E ora vi spiego il perché!”
    Il tutto rivolgendosi a una platea nella quale almeno il 50% dei ragazzi si è già dichiaratamente schierato a favore dell’alienazione e magari, mentre ascolta il sermone, smanetta con lo smartphone o sogna di poter uscire a fumare……
    In questa massa di giovani anime alienate tanti verranno processati per i loro comportamenti, perché ritenuti sbagliati e non compatibili con il sistema; alcuni verranno diagnosticati malati sul piano comportamentale e attitudinale, e trattati con psicofarmaci.
    Vogliamo parlare del crescente fenomeno dell’apatia e della depressione tra le nuove generazioni di adolescenti? Vogliamo aprire gli occhi sulle migliaia di diagnosi psichiatriche che pesano come lapidi sul futuro dei ragazzi “sbagliati”? E sui quintali di psicofarmaci con cui vengono “curati”? Perché non si parla invece di come i Governi siano i primi sostenitori della condizione dipendente delle masse? Cosa possono insegnare sulla dipendenza gli stessi Governi che condannano le piante medico/ricreative e contemporaneamente vendono con profitti enormi tabacco, alcool, psicofarmaci e slot machine? Chi si occupa di disintossicare i milioni di persone resi legalmente tossico dipendenti? Li ripuliamo con farmaci che creano a loro volta dipendenza? Educheremmo così a divenire buoni clienti di farmaci. Pensiamo a come le aziende multinazionali siano ben istruite in materia e come le strategie di Marketing applicate siano carburante dichiarato per alimentare compulsività.
    Proviamo per un istante a pensare: di cosa ha bisogno primariamente un individuo alienato? Di sermoni sui mostri delle droghe? O forse, prima di ogni altra cosa, di un contatto umano autentico, di un potersi rispecchiare nella sua fragilità, umanità e interiorità senza temere giudizio?
    Perché uno Stato non si occupa di questi aspetti umani rispetto alla piaga delle dipendenze?
    Il problema principale è che non si può pensare di recuperare persone affette in modo grave da dipendenze proponendo programmi schematici uguali per tutti: ogni tossico dipendente porta certamente in sé il chip dell’alienazione, ma il modo in cui lo ha costruito nel cervello è unico e dovuto a cause uniche.
    Per poter essere efficienti, sia l’educazione sulla dipendenza che i programmi di recupero devono essere progettati per un utilizzo plasmato su misura sul soggetto: il tossico dipendente deve essere considerato e curato come individuo. Deve essere favorito al recupero della sua neuro-plasticità ed educato a rimodellarsi a suo favore.
    Purtroppo sembra che, per gli stessi Governi che continuano a vendere dipendenza con lucrosi guadagni, occuparsi dei danni umani da loro causati sia una mission impossibile e troppo costosa.
  • Opening the Seed: quali metodi per trasformare la piaga della dipendenza?
    La dura realtà e che non siamo preparati ad accogliere l’onda d’urto che le innumerevoli nuove forme di dipendenza, ben nascoste e accettate dal tessuto sociale (come a esempio l’alienazione da smartphone) stanno per causare in tempi vicini sulla società.
    Non eravamo pronti neppure dopo le rivoluzioni degli anni ‘60/’70: non eravamo pronti all’eroina, alla cocaina, all’alcool, al tabacco, alla televisione.
    Non siamo mai stati pronti perché non ci si è mai occupati di fare formazione pubblica di stampo umanistico, su chi siamo e su come funzioniamo.
    Il miglior prodotto terapeutico che i Governi hanno saputo offrire alle masse tossico dipendenti sono state le Comunità, rivolte ovviamente solo alle casistiche di dipendenza ghettizzate: in Italia hanno cominciato ad apparire in modo più pubblico negli anni ’70, per le ovvie necessità di cui abbiamo accennato. In circa quarant’anni di operatività le statistiche ci dicono che, considerando casi recuperati in comunità e un periodo minimo di non tossicità dai 5 ai 10 anni dopo la dimissione dalla comunità, le percentuali di successi oscillano tra l’1 e il 2%.
    In altre parole un grande fallimento confermato nel tempo.
    Perché le modalità di recupero attuate non funzionano? E, di nuovo, perché non se ne parla?
    La categoria dei tossicodipendenti è quella meno considerata dallo Stato: la quota economica giornaliera di supporto che lo Stato italiano elargisce alle comunità corrisponde a meno della metà di quella elargita per l’accoglienza degli psichiatrici. Questo impedisce alle comunità stesse di fare ricerca, sperimentazione e di pagare il personale che sarebbe necessario.
    I programmi di recupero sono impostati prevalentemente sui fondamenti di privazione, disciplina, senso delle regole e partecipazione/relazione al collettivo: questi fondamenti possono risultare buoni ed efficaci solo se sono associati a valori interni dei singoli soggetti; per poter praticare questa associazione servirebbe un lavoro individuale su ogni soggetto, il che non è sostenibile per quanto detto precedentemente.
    La maggior parte dei consumatori dipendenti di stupefacenti vive una profonda alienazione dal sistema sociale, che si costituisce appunto sugli stessi fondamenti dei programmi di recupero: se non si riesce a trasmettere a ogni soggetto in cura un senso profondo rispetto a quei fondamenti, questi potranno a un certo punto essere interpretati come una nuova prigione da cui alienarsi.
    Se non ho in me un valore sentito rispetto su dogmi di fermezza e privazione, il cervello limbico che governa il pattern comportamentale del dipendente si schiererà contro i dogmi.
    Il cervello che tutela la sopravvivenza e la territorialità psichico/emotiva è più forte della volontà: vince lui.
    Inoltre, su quale motivazione viene fondato questo tentativo di recupero? La motivazione di rientrare nel mondo che si è in precedenza rifiutato? Per fare che cosa? Per quale motivo? Sono motivazioni sentite dal paziente o imposte come giuste convenzioni di guarigione?
    Volontà e la disciplina diventano strumenti potenti per liberarsi dalla dipendenza solo quando vengono cerebralmente ed esperienzialmente linkate a riferimenti interni riconosciuti dal soggetto: riferimenti che risultino piacevoli, che aiutino a nutrire una nuova versione dell’identità e che permettano al cervello di riattivare la neuro-plasticità e creare nuove mappe neuronali.
    L’esperienza di anni di intenso lavoro, svolto nei processi di recupero dalle tossicodipendenze, mi insegna che posso parlare a un tossico dipendente di disciplina e privazione solo se al tempo stesso gli garantisco un alto dosaggio di calore umano; relazioni scevre di condanna e giudizio; una percezione di amore integra che includa il riconoscimento dell’autorità e la tolleranza della rigidità, quando necessaria; un profondo lavoro di riconnessione al corpo e alla percezione di sé; un aiuto a liberare emozioni e a riprendere ad ascoltarsi; ; creare l’interesse di riscoprirsi come persona; lavorare sugli elementi creativi e i talenti; ridare valore a cosa gli piace fare e a cosa lo fa sorridere.

  • Opening the Seed: dalla dipendenza all’Interdipendenza.
    Nella mia visione ed esperienza diretta sul recupero di soggetti tossico dipendenti, mi sento di affermare che l’unica via produttiva è quella del ritorno consapevole al senso innato di interdipendenza.
    Ammetto che non sia un’operazione semplice, né indolore. Ci vogliono molto coraggio, forza e determinazione per un tossico dipendente per decidere di intraprendere un percorso di recupero: uscire dalla dipendenza è un rifacimento d’abito, di identità, e fa paura; paradossalmente è più spaventoso ricostruirsi un’identità che procedere con quella conosciuta, seppur chiaramente distruttiva.
    Mi è capitato più volte di dire a un soggetto tossicodipendente: “La droga ti ha salvato la vita.”
    Continuerò a dirlo perché è vero. La maggior parte dei soggetti tossico dipendenti porta in sé traumi intollerabili, a causa dei quali si sarebbero suicidati o sarebbero letteralmente impazziti senza gli ausili di rilassamento artificiale delle droghe. Quindi per me un tossico dipendente vivo non è un errore ma una possibilità: se la vita permette a un suo figlio di percorrere il tragitto della dipendenza, forse è perché la vita sa cosa fa; essa tende sempre e comunque a creare, quindi da qualche parte nel tunnel sconquassato della dipendenza ci sono le energie per creare una nuova realtà, partendo dalle vecchie macerie.
    Nell’approccio fondato sull’interdipendenza la storia della tossicità è una risorsa e non una macchia di peccato. Il riprendere una confidenza percettiva con la propria origine di creature interdipendenti con il tutto, figli e figlie dello stesso Dio, si nutre scoprendo che in ogni parte di noi, anche la più devastata, e in ogni azione che facciamo c’è l’Intelligenza Universale al lavoro.
    La vita si fonda anche sulla legge del Paradosso, per cui anche la strada apparentemente più sbagliata tende verso la stessa meta: l’evoluzione di chi la percorre.
    Perché il tossico dovrebbe essere più sbagliato di chi divorzia, di chi abbandona, di chi specula, di chi tradisce, di chi mente o di chi fallisce economicamente?
    Ciò che è stato negato e che ha prodotto traumi indelebili può essere rigenerato.
    Contatto, relazione, onestà, partecipazione: sono forse elementi riservati a qualche èlite con la fedina social-morale immacolata?
    Noi ci  dedichiamo a dare un valore supremo a questi elementi: sappiamo che non sarà possibile evitare in futuro il generarsi di nuove forme di dipendenza; col cuore ci impegniamo a far sì invece che tanti abbiamo imparato come rispondere all’evento dipendenza.

Abheeru R. Berruti